Sono tornata a Kathmandu. Sei anni dopo. Con una consapevolezza diversa dal passato, ma con ancora nel cuore i colori di una terra che, seppur ferita, ama se stessa profondamente. Nulla è cambiato in città, almeno apparentemente.
Il piccolo aeroporto internazionale Tribhuvan ti accoglie allo stesso modo, con quella folla di escursionisti che si precipitano, insieme a te, a compilare i documenti per ottenere la Visa necessaria a entrare in Nepal (il costo per 15 giorni è di 25,00 euro). Per un attimo ti senti ancora in Europa, ma se ti guardi intorno capisci subito che la realtà qui è tutta un’altra. E questo ti catapulta in un mondo parallelo dove tutto, immediatamente, assume un’importanza diversa; dove le priorità sono altre e te ne rendi conto sulla tua pelle.
Kathmandu è una città difficile. Punto di partenza d’obbligo per quanti scelgono il Nepal per i suoi incredibili itinerari di trekking (io sei anni fa arrivai ai 4.000 metri del Tempio di Muktinath, sull’Annapurna), vede il suo massimo afflusso turistico nell’area di Thamel dove si concentrano centinaia di negozi, guest house e ristoranti spesso di dubbia qualità. Impossibile non perdersi a Thamel: anzi il mio consiglio è proprio quello di farlo per poter scoprire nel dedalo di viuzze angoli inimmaginabili dove si nascondono decine e decine di templi induisti, di volti, di storie. Se proprio non volete affidarvi all’avventura ci sono però numerosi tuc tuc che con un centinaio di rupie (circa un euro) vi porteranno alla scoperta dell’area fino a raggiungere la famosa Durbar Square, purtroppo devastata dal terremoto dell’aprile del 2015. Sono felice di averla vista sei anni fa in tutto il suo splendore, perché sono certa che non tornerà mai più come prima. Qui tutto è lento, terribilmente lento. Non solo il ritmo della vita (che è anche un bene), ma soprattutto le ricostruzioni e le nuove opere.
La città oggi è invivibile per la polvere e lo smog che si respirano (non a caso quasi tutti girano per le strade con le maschere) e posso assicurarvi che la situazione è molto, ma molto peggio, di sei anni fa. L’aggravante, oltre al fatto che circolano cinque milioni di moto e non so quante centinaia di vecchie macchine e camion, è che finalmente si sta lavorando per portare l’acqua in città (il problema della corrente elettrica sembra risolto, anche se i cavi per le strade lasciano intendere la precarietà della situazione). Questo significa che la maggior parte delle vie di comunicazione sono interrotte e piene di buche perché gli operai stanno scavando (lentamente) per inserire le tubazioni che finalmente, entro il 2018, dovrebbero permettere a Kathmandu di risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico. Se si aggiunge il fatto che se non piove l’aria è irrespirabile, ma che se piove le strade diventano dei laghi (e il traffico è costantemente intenso anche se i clacson hanno smesso di suonare)… beh potete immaginare perché mi sono permessa di dire che Kathmandu non sia una città facile. Lasciando da parte il discorso della povertà per non cadere nella retorica, è pur vero che questo luogo ha anche tanto da offrire a quanti arrivano in Nepal. Templi e palazzi storici, uno splendido artigianato del legno, la lavorazione del cachemire e dei tessuti, le pietre preziose, gli argenti, il cibo.
Si, seppur poco valorizzata, anche qui, come in tutto il mondo, c’è una cultura culinaria fatta di piatti semplici arricchiti da un grande utilizzo di spezie. Il piatto simbolo sono i Momo, i classici dumpling ripieni che vengono serviti con carne, pollo o verdure. I miei assaggi top sono stati da Momo Queen in Lazimpat, al Kaiser Cafè all’interno del Garden of Dreams e quelli preparati in casa durante una bellissima cena nepalese a cui ho avuto la fortuna di partecipare. Tutti i sabati mattina, poi, sempre in Lazimpat, si tiene l’Organic Farmer’s Market: un luogo da non perdere per la bellezza del posto e per la ricca varietà di verdure, spezie e prodotti locali che si possono acquistare. Tra questi vi segnalo i Bagels di Kathmandu che a giugno apriranno un negozio specializzato nel centro di Thamel.
Cibo a parte, è sicuramente la spiritualità del Nepal a sorprendere credenti e atei di ogni luogo. La maggior parte della popolazione è induista, ma ci sono anche numerosi buddisti, qualche mussulmano e una piccola percentuale di cristiani. Tutti convivono nel rispetto reciproco. E questa è una lezione che in occidente bisognerebbe imparare. E anche in fretta. I templi induisti e buddisti costruiscono geometrie di inestimabile bellezza e ricchezza culturale in città (e non solo): fiori, candele, campane, ruote e bandiere di preghiera illuminano strade, case, piazze, villaggi interi.
La preghiera è nell’aria, portata dal vento. Come i profumi degli incensi o gli odori più intensi che raccontano di una vita che non c’è più nel luogo indù più sacro al mondo per le cremazioni: il Tempio di Pashupatinath. Arrivano anche dall’India sulle rive del fiume Bagmati, per l’ultimo rito della vita terrena: i famigliari del defunto vestono in bianco in segno di lutto, mentre il figlio maggiore ha il compito di accendere la pira dalla bocca del proprio genitore. Le ceneri saranno versate nel fiume sacro in cui vengono fatte offerte e donazioni, mentre i bambini giocano o cercano di recuperare con artigianali calamite qualche moneta da portare a casa. Le scimmie, sull’altra sponda, osservano dall’alto quello che succede e giovano del cibo che turisti e curiosi donano loro in continuazione. Vita e morte convivono incredibilmente in questo luogo in cui i lebbrosi della città chiedono dignitosamente offerte lungo la strada che porta al tempio.
In questo spaccato di mondo non puoi che dimenticare la superficialità con cui troppo spesso, noi occidentali, viviamo le nostre giornate animati solo dal desiderio di emergere, di essere notati, di raccogliere quei like che stanno rendendo sempre più arida di sentimenti la nostra vita. Ti si libera la mente, fai pace con te stesso. A me è successo così. E questo lo devo anche alle persone che hanno resto speciale questo mio secondo viaggio a Kathmandu: due donne francesi (e che donne!) che da quasi vent’anni si occupano di alcuni ragazzi dando loro una casa, un’istruzione, un’educazione, un lavoro, ma soprattutto una famiglia.
Poco lontano dalla stupa di Boudhanath (uno dei luoghi più energetici al mondo, per me) si trova infatti una deliziosa casa gialla che in questi giorni è diventata anche un po’ la “mia” casa. Questo è, dal 2000, il cuore di Ashiana Padma: il luogo dove vivono una trentina di bambini e ragazzi che vanno dai 4 ai 20 anni. Catherine Denaes porta avanti con inarrestabile fermezza e amore il progetto della sua associazione lontano dalle luci della ribalta e dalla spettacolarizzazione delle immagini.
Troverete ben poco sul web riguardo al lavoro che insieme ad Anne Anfrol e a tanti sponsor in giro per il mondo portano avanti qui per aiutare i ragazzi a costruirsi un futuro (ma se volete aiutarmi ad aiutarli potete tranquillamente chiedermi). Questa più che una casa è una famiglia in cui l’affetto di ognuno è per il bene di tutti. Qui si va a scuola, si studia, si fa yoga, si imparano la danza e la musica, si cresce insieme cercando di allontanare i ricordi e i problemi di un passato che per molti è stato davvero difficile. A loro va il mio grazie per avermi accolto in questa grande famiglia. Per avermi fatto conoscere incredibili ragazzi e tanti amici nepalesi che con loro condividono da anni questa esperienza. Per avermi fatto sentire a casa dal primo minuto in cui le ho incontrate. Per aver condiviso con me la bellezza di questa vita che, emergendo dalla polvere da cui è circondata, illumina tutto ciò che incontra. Vi voglio bene ragazze. Vi voglio bene amici di Ashiana Padma. Namastè.